Il Montefeltro - La storia

Il Territorio

Fra le alte valli dei fiumi Foglia e Marecchia, al confine fra le attuali regioni Marche, Toscana e Emilia Romagna si estendeva il territorio del Montefeltro. In epoca romana questa regione storica non esisteva, il territorio non possedeva un nome proprio, faceva parte della Regio VI (Umbria) e VIII (Aemilia)  e confinava con la Regio VII (Etruria). Il termine Mons Fereter indicava solo il monte dove sorge San Leo.

Caduto l’Impero Romano nel 476 d.C., la nuova capitale per gli invasori Goti diventa Ravenna. Per raggiungere Ravenna da Roma due erano le vie principali: la Flaminia da Roma fino a Rimini, per proseguire con la Popilia (via Romea) fino ad Aquileia passando per Ravenna; la Cassia, Roma-Arezzo per proseguire con la Ariminensis fino a Rimini scendendo lungo il fiume Marecchia. Per proteggere e garantire i traffici e i necessari collegamenti anche militari fra Roma e Ravenna andavano quindi difesi e fortificati il “nodo stradale” di Rimini e la strategica valle del Marecchia. Sull’altura marecchiese che meglio si prestava ad essere fortificata per configurazione orografica fu fondato, presumibilmente dai goti, il castrum di San Leo. Tale castello però non impedì ai bizantini, durante   guerre greco-gotiche (535-553 d.C.), di conquistare Ravenna risalendo da Roma per le vie Flaminia e Ariminensis. San Leo divenne quindi sede di un vescovo-conte quale amministratore della sua diocesi-territorio. Nel X secolo San Leo fu capitale d’Italia poiché re Berengario II in tale città-stato fu assediato per due anni dall’Imperatore Ottone. L’importanza di tale nodo strategico crebbe sempre di più per i traffici e collegamenti sempre più intensi sia fra Rimini e la Toscana sia fra il nord (collegamenti imperiali dalla Germania) e Roma. Anche per questo tale fortezza iniziò ad essere contesa tra le famiglie che si spartivano il territorio : i Montefeltro, conti di Montecopiolo e i Malatesta signori di Pennabilli, Verucchio, Rimini. La supremazia della casata di Montefeltro su quella avversaria permise di inglobare il territorio di San Leo per poi estendere il dominio fino a raggiungere Urbino.

La Storia

DALL’ANTICHITA AL MEDIOEVO

DALL’ANTICHITA' AL MEDIOEVO

Il primo insediamento abitativo nel sito dell’attuale città ha le sue lontane origini nelle popolazioni umbro-picene, alle quali deve il suo nome, tuttora di significato incerto (urvum, aratro, toponimo più accettabile rispetto a urbs bina, città doppia, perché disposta su due alture).
In epoca romana divenne municipium nel 46 a.C., inclusa nella Sesta Regione Augustea (Umbria). I numerosi resti e reperti dimostrano che la città aveva una discreta importanza. Compresa nell’Esarcato di Ravenna, dopo una breve dominazione longobarda (752-756), passò alla Chiesa (VIII secolo); divenne comune a prevalenza ghibellina nel corso del sec. XI.

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DALL’ANTICHITA AL MEDIOEVO

Il primo insediamento abitativo nel sito dell’attuale città ha le sue lontane origini nelle popolazioni umbro-picene, alle quali deve il suo nome, tuttora di significato incerto (urvum, aratro, toponimo più accettabile rispetto a urbs bina, città doppia, perché disposta su due alture).
In epoca romana divenne municipium nel 46 a.C., inclusa nella Sesta Regione Augustea (Umbria). I numerosi resti e reperti dimostrano che la città aveva una discreta importanza. Compresa nell’Esarcato di Ravenna, dopo una breve dominazione longobarda (752-756), passò alla Chiesa (VIII secolo); divenne comune a prevalenza ghibellina nel corso del sec. XI.

LA DINASTIA DEI MONTEFELTRO

LA DINASTIA DEI MONTEFELTRO

L’inizio dell’ascesa dei Montefeltro risale al 1140, quando l’imperatore Federico I Barbarossa donò il feudo di Montefeltro (l’odierna San Leo) ad Antonio da Carpegna, che per essersi stabilito in Montefeltro, ne assunse l’antico nome destinato a rimanere nella storia, e fu Antonio di Carpegna-Montefeltro, cui venne assegnato anche il castello di Montecopiolo e conferito nel 1155 il titolo di conte e la carica di Vicario imperiale, quale ricompensa per aver domato a Roma una rivolta contro lo stesso Barbarossa. Da questo momento ha inizio la grande vicenda umana e storica che ha portato, tra eventi, battaglie, matrimoni politici, alleanze strategiche, alla creazione dello stato di Urbino.
Fu poi il probabile figlio di Antonio, che si fece chiamare Montefeltrano I (1135 ca.-1202), capostipite della casata urbinate, ad inaugurare una politica espansionistica di parte ghibellina (contraria a quella dei Carpegna, suoi antenati), al seguito del Barbarossa, in direzione di Rimini, Pesaro e soprattutto il comune del Urbino, a prevalenza ghibellina, in quanto sottoposta a una più diretta influenza dell’autorità imperiale. Ciò favorì un buon equilibrio tra i poteri vescovile e comunale, equilibrio che durante la sanguinosa guerra tra l’Impero e i Comuni risparmiò a Urbino le aggressioni degli eserciti imperiali del Barbarossa. In tale contesto la famiglia feltresca doveva avere una certa supremazia sulle altre casate miranti alla conquista del potere nella città. Fu così che Montefeltrano I ricevette il titolo di Vicario Imperiale tra il 1162 e il 1167 con giurisdizione su vari comuni della Romagna e della Tuscia e più tardi l’investitura del Comitato di Montefeltro e forse anche dei Comitati di Urbino, Pesaro e Rimini. I meriti acquisiti da Montefeltrano I, nella spedizione contro il Regno di Sicilia al servizio di Enrico VI di Svevia, figlio del Barbarossa, consentirono alla sua famiglia un indiscusso primato politico nel suo ambito d’azione. Le prime basi della futura grandezza di Urbino erano state gettate.
Nel 1213 Buonconte (1170-1241), valoroso uomo d’arme, figlio di Montefeltrano, fu investito da Federico II di Svevia del titolo comitale, che gli urbinati e il partito guelfo accettarono con qualche resistenza. Nel 1234 il titolo si trasmise ai rappresentanti della famiglia, che sempre più si identificava col destino della città. Il fratello di Buonconte Taddeo (1175-1254) fu acceso ghibellino e, dopo un periodo di scomunica (1247), in previsione della imminente crisi dell’Impero (la sfortunata lotta dell’imperatore Federico II contro i comuni), seppe abilmente riconquistarsi la benevolenza del papa, che nel 1249 assumeva sotto la sua protezione i Comitati di Urbino, Montefeltro, delle Marche e della Romagna. In questo periodo si stabiliscono a Urbino i francescani, i domenicani e gli agostiniani.
Con Guido il Vecchio (1220-1298), immortalato nell’Inferno dantesco quale consigliere fraudolento, si riaccesero le lotte contro i guelfi, legate al più ampio contesto storico del tempo (gli ultimi tentativi degli Svevi di contrastare il Papato, dopo la morte di Manfredi); fu colpito da varie scomuniche e la caduta di San Leo e Forlì determinò la perdita della signoria sul Montefeltro e su Urbino; dopo un periodo di conflitti violenti tra le due parti, finalmente, nel 1295, Guido si riconciliò col papa e tornò a Urbino come signore.
Una triste vicenda si lega al nome del successore di Guido, Federico I (1258?-1322), che riprese così radicalmente la lotta contro la parte guelfa da provocare una guerra contro la città da parte del Papato e una rivolta popolare che ebbe come tragico epilogo l’eccidio dell’intera famiglia del signore (1322). Si salvò dalla strage solo il figlio Nolfo (1290/5-1360 ca.), che riuscì a rimettere insieme i ghibellini e a ridare ordine alla città: questa infatti ristabilì il dominio di Nolfo, che godeva di grande prestigio personale (aveva ottenuto il titolo di Vicario Imperiale e nel 1347 ospitò il re Ludovico di Ungheria) ed era preferito alla esosa politica fiscale degli amministratori pontifici.
Alla stabilità politica di Urbino concorse l’abilità diplomatica del Cardinale Egidio Carrillo de Albornoz, che, venuto in Italia per restaurare i possessi pontifici (Ducato romano, Esarcato e Pentapoli) dopo la crisi avignonese, preferì non contrastare i fieri signori dell’Italia centrale, ma tenerseli buoni conferendo loro il titolo di Vicari Pontifici: fu così che nel 1355 riconobbe a Nolfo ed Enrico da Montefeltro la custodia civitatis di Urbino e di Cagli, in cambio della quale essi riconobbero l’autorità della Santa Sede. Questa investitura fece sì che Urbino fosse sempre ben governata dai suoi signori, che evitarono saggiamente di tenere una cattiva condotta, per timore di vedersi revocare il vantaggioso titolo. D’altra parte la posizione dei domini urbinati era strategicamente importantissima per il mantenimento del delicato equilibrio nell’Italia centrale, e di questo si avvide l’Albornoz, che tenne nei confronti dei signori di Urbino un atteggiamento sempre  moderato e favorevole.
Alla morte di Nolfo, tra i vari membri della famiglia si affermò Paolo, che mantenne la custodia civitatis. La sua sfortuna politica fu dovuta ad una serie di fatti concomitanti: la caduta definitiva dei ghibellini suoi alleati, la morte dell’Albornoz (1367), il passaggio del dominio di Urbino sotto il legato pontificio inviato da Papa Urbano V. Nonostante tutto, Paolo si mantenne fedele verso la Chiesa, ma gli altri membri della famiglia, guidati da Antonio (1348-1404), figlio di Federico II Novello, mantennero la linea dura e si opposero con decisione alle pretese del Papato. Ne seguirono vari conflitti e infine l’occupazione della città da parte delle truppe pontificie guidate da Pandolfo Malatesta (1369). Tuttavia l’abilità e la tenacia di Antonio ebbero la meglio sulla inopportuna condotta della amministrazione ecclesiastica, che imponeva pesanti tassazioni, dovute spesso alla necessità di pagare le milizie mercenarie: circostanza questa che esasperava gli Urbinati e i sudditi del Montefeltro, che traevano sopravvivenza e benessere dal mestiere delle armi. Fu durante una delle  rivolte che scoppiavano nelle città poste sotto il dominio papale, che Antonio, nel 1375, riuscì ad approfittarne per rientrare in possesso di Urbino e di Cagli, e ne venne acclamato unico signore, diversamente da prima, quando era la famiglia feudale nel suo insieme a tenere il primato. Sotto il governo di Antonio, i confini si estesero notevolmente: furono annesse Cagli, Gubbio, Cantiano e Sassoferrato (quest’ultima solo per breve tempo, dal 1391 al 1394). Inoltre la sua abilità politica gli permise di inserire lo stato di Urbino (d’ora in poi così si può definire) nel gioco della grande politica italiana, grazie ad amicizie importanti come Gian Galeazzo Visconti, e di ottenere da Papa Bonifacio IX il riconoscimento di tutti i suoi domini (1390). A ornamento della sua azione, va ricordato che ebbe allora inizio quella tradizione umanistica che nella seconda metà del secolo XV farà di Urbino una capitale rinascimentale.
Successe ad Antonio, morto nel 1404, il figlio Guidantonio (1378-1443), che, dopo qualche dissidio con Papa Alessandro V, dal quale ebbe la scomunica (1410-1412), ottenne varie importanti onorificenze e riconoscimenti da Papa Martino V, di cui sposò in seconde nozze la nipote, Caterina Colonna. Questo legame con la Chiesa gli permise di estendere i suoi domini sulla Massa Trabaria (l’antichissimo territorio appartenente alla Chiesa compreso tra le alte valli del Marecchia e del Metauro, comprendente anche l’Alpe della Luna, allora ricchissimo di abetaie e così denominato per la produzioni di travi, trabes, destinate alle architetture romane) e Castel Durante (Urbania), nonché la conferma del titolo comitale.
Nel 1443 papa Eugenio IV elevò Urbino alla dignità ducale a favore di Oddantonio (1427-1444), figlio di Guidantonio. Tuttavia di una tale eredità non seppe trarre beneficio: la sua incapacità politica e amministrativa e una vita dissoluta lo fecero cadere ben presto vittima di una congiura in cui fu assassinato assieme a due consiglieri (21 luglio 1444).
Fu col Duca Federico (1422-1482), la cui immagine di profilo è notissima per il ritratto eseguito da Piero della Francesca, che la città assumerà quell’aspetto monumentale che tutti conosciamo, diventando una città d’arte di rilevanza assoluta. Sotto la sua signoria, Urbino, da piccolo stato militare, costretto nel medioevo a destreggiarsi abilmente tra papi e imperatori e a difendersi dalle continue incursioni, diverrà una compagine politicamente forte e compatta, culturalmente originale e creativa.
Figlio naturale di Guidantonio, nacque a Gubbio nel 1422 e visse fino al 1433 presso la madre adottiva, Giovanna Alidosi, vedova di Bartolomeo Brancaleoni, signore di Mercatello e Sant’Angelo in Vado, di cui sposò nel 1437 la figlia Gentile. Successivamente trascorse due anni alla corte dei Gonzaga di Mantova, dove fu discepolo dell’umanista Vittorino da Feltre; nel 1438 ebbe l’occasione di dar prova, a soli sedici anni, delle sue virtù di guerriero al seguito del condottiero Nicolò Piccinino. Dopo l’uccisione di Oddantonio (1444), divenne signore di Urbino e anche sul piano politico e diplomatico si rivelò eccezionalmente abile e accorto, riuscendo ad appianare i contrasti interni e a riportare la ricchezza economica.
Un personaggio determinante nella vita di Federico e dello stato urbinate fu Ottaviano II degli Ubaldini. Nato a Gubbio tra il 1423 e il 1424, vi trascorse la prima infanzia insieme al fratellastro Federico. Mentre Federico è sempre ritratto come guerriero, Ottaviano, più incline agli studi, viene sempre raffigurato con i libri; egli coadiuvò efficacemente al governo di Urbino come reggente quando il Duca era lontano per le lunghe campagne di guerra e come fido consigliere. Ottaviano ebbe il governo di Apecchio, Mercatello, Sassocorvaro, dove furono costruiti nobili palazzi dall’architetto e amico Francesco di Giorgio Martini.
La politica del Duca Federico portò ad un notevole ampliamento dei confini dello stato: la prima moglie, Gentile, prima ricordata, portò in dote a Federico il dominio della ricca Massa Trabaria, ma non gli diede l’erede sperato e dovette perciò ritirarsi nel 1457 nel monastero di S. Chiara, in Urbino; il secondo matrimonio (1460) con Battista Sforza, figlia quattordicenne di Alessandro Sforza, signore di Pesaro, gli permise di stabilire un importante legame di parentela; infine, con la definitiva vittoria sul signore di Rimini, Sigismondo Pandolfo Malatesta, nella battaglia del Cesano (1462), grazie alla quale pose fine alla guerra - interminabile e da sempre esistente - tra le due storiche casate, si garantì il possesso del Montefeltro, fino a Sant’Agata Feltria.
D’ora in avanti Urbino si trasformò in corte rinascimentale civilissima ed erudita. Il Duca Federico fu, come i suoi antenati, grande condottiero ed abile politico, un professionista della guerra, ma fu anche grande mecenate e raffinato uomo di cultura. Con i proventi delle sue vittorie fece costruire il suo palazzo. Nel 1465 ne affidò i lavori a Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini e fece della sua corte un punto di riferimento e di attrazione per i migliori ingegni del suo tempo. Tutte le città e i borghi furono fortificati dal Martini secondo le tecniche più aggiornate, e i numerosi castelli, baluardi ed edifici di vario genere disseminati nel territorio fanno ancor oggi fede del progetto unitario di Federico.
Nel 1472 nacque l’erede, Guidubaldo, ma la Duchessa Battista, a soli ventisei anni, morì: fu un avvenimento dolorosissimo per il consorte e per tutta la città; va detto che ella, nonostante la giovane età, fu anche abile in politica e provvide a reggere lo stato durante i periodi in cui il Duca prestava altrove il suo servizio di condottiero. Nel 1474 Papa Sisto IV (Francesco Della Rovere) chiamò Federico a Roma e lo nominò Cavaliere di S. Pietro e Confaloniere di Santa Romana Chiesa; gli concesse quindi l’ambito e atteso titolo di duca. Re Edoardo IV di Inghilterra gli conferì l’Ordine della Giarrettiera e il re di Napoli l’Ordine dell’Ermellino. Molto importante per la futura storia del Ducato fu il matrimonio tra una figlia di Federico, Giovanna, e un nipote del papa, Giovanni della Rovere, signore di Senigallia. Era l’apogeo di Urbino e del suo Ducato.
L’ultimo della dinastia feltresca fu Guidubaldo (1472-1508), che per la giovanissima età (aveva dieci anni quando il padre morì durante una campagna militare), fu guidato nell’esercizio del governo dallo zio, il già ricordato Conte Ottaviano Ubaldini. Anche egli fu uomo avveduto e dotto e godette del favore del papa (conservò le stesse cariche del padre) e della stima dei sudditi; si legò ai Signori di Mantova sposando Elisabetta Gonzaga nel 1489. Nonostante la sua assennatezza e il suo valore militare, Guidubaldo conobbe la sventura di essere spodestato con l’inganno nel 1502 da Cesare Borgia, figlio del Papa Alessandro VI, che mirava a creare uno stato personale nell’Italia centrale, includente le città della Romagna, con Urbino capitale. Il Duca riparò a Mantova e Venezia e solo nell’agosto del 1503, dopo la caduta dei Borgia per l’improvvisa morte del pontefice, poté fare ritorno alla sua corte. Poiché al duca mancò l’erede, fu adottato nel 1504 Francesco Maria, il figlio della sorella Giovanna e di Giovanni Della Rovere. Gli anni seguenti furono aurei per la gloria cittadina e per la sua cultura: la corte ebbe tra i suoi ospiti Baldassar Castiglione, l’autore de Il Cortegiano, e Pietro Bembo; nel 1502 venne fondato il Collegio dei Dottori, da cui avrà origine l’università, istituzione che alimenta ancora oggi la vita e la cultura cittadine; fu istituita (1507) la Cappella Musicale del SS. Sacramento, a servizio del Duomo, tuttora attiva. Fu proprio in questo ambiente così nutrito di raffinata cultura, che si formò l’eccezionale personalità artistica di Raffaello.

LA DINASTIA DEI MONTEFELTRO

L’inizio dell’ascesa dei Montefeltro risale al 1140, quando l’imperatore Federico I Barbarossa donò il feudo di Montefeltro (l’odierna San Leo) ad Antonio da Carpegna, che per essersi stabilito in Montefeltro, ne assunse l’antico nome destinato a rimanere nella storia, e fu Antonio di Carpegna-Montefeltro, cui venne assegnato anche il castello di Montecopiolo e conferito nel 1155 il titolo di conte e la carica di Vicario imperiale, quale ricompensa per aver domato a Roma una rivolta contro lo stesso Barbarossa. Da questo momento ha inizio la grande vicenda umana e storica che ha portato, tra eventi, battaglie, matrimoni politici, alleanze strategiche, alla creazione dello stato di Urbino.
Fu poi il probabile figlio di Antonio, che si fece chiamare Montefeltrano I (1135 ca.-1202), capostipite della casata urbinate, ad inaugurare una politica espansionistica di parte ghibellina (contraria a quella dei Carpegna, suoi antenati), al seguito del Barbarossa, in direzione di Rimini, Pesaro e soprattutto il comune del Urbino, a prevalenza ghibellina, in quanto sottoposta a una più diretta influenza dell’autorità imperiale. Ciò favorì un buon equilibrio tra i poteri vescovile e comunale, equilibrio che durante la sanguinosa guerra tra l’Impero e i Comuni risparmiò a Urbino le aggressioni degli eserciti imperiali del Barbarossa. In tale contesto la famiglia feltresca doveva avere una certa supremazia sulle altre casate miranti alla conquista del potere nella città. Fu così che Montefeltrano I ricevette il titolo di Vicario Imperiale tra il 1162 e il 1167 con giurisdizione su vari comuni della Romagna e della Tuscia e più tardi l’investitura del Comitato di Montefeltro e forse anche dei Comitati di Urbino, Pesaro e Rimini. I meriti acquisiti da Montefeltrano I, nella spedizione contro il Regno di Sicilia al servizio di Enrico VI di Svevia, figlio del Barbarossa, consentirono alla sua famiglia un indiscusso primato politico nel suo ambito d’azione. Le prime basi della futura grandezza di Urbino erano state gettate.
Nel 1213 Buonconte (1170-1241), valoroso uomo d’arme, figlio di Montefeltrano, fu investito da Federico II di Svevia del titolo comitale, che gli urbinati e il partito guelfo accettarono con qualche resistenza. Nel 1234 il titolo si trasmise ai rappresentanti della famiglia, che sempre più si identificava col destino della città. Il fratello di Buonconte Taddeo (1175-1254) fu acceso ghibellino e, dopo un periodo di scomunica (1247), in previsione della imminente crisi dell’Impero (la sfortunata lotta dell’imperatore Federico II contro i comuni), seppe abilmente riconquistarsi la benevolenza del papa, che nel 1249 assumeva sotto la sua protezione i Comitati di Urbino, Montefeltro, delle Marche e della Romagna. In questo periodo si stabiliscono a Urbino i francescani, i domenicani e gli agostiniani.
Con Guido il Vecchio (1220-1298), immortalato nell’Inferno dantesco quale consigliere fraudolento, si riaccesero le lotte contro i guelfi, legate al più ampio contesto storico del tempo (gli ultimi tentativi degli Svevi di contrastare il Papato, dopo la morte di Manfredi); fu colpito da varie scomuniche e la caduta di San Leo e Forlì determinò la perdita della signoria sul Montefeltro e su Urbino; dopo un periodo di conflitti violenti tra le due parti, finalmente, nel 1295, Guido si riconciliò col papa e tornò a Urbino come signore.
Una triste vicenda si lega al nome del successore di Guido, Federico I (1258?-1322), che riprese così radicalmente la lotta contro la parte guelfa da provocare una guerra contro la città da parte del Papato e una rivolta popolare che ebbe come tragico epilogo l’eccidio dell’intera famiglia del signore (1322). Si salvò dalla strage solo il figlio Nolfo (1290/5-1360 ca.), che riuscì a rimettere insieme i ghibellini e a ridare ordine alla città: questa infatti ristabilì il dominio di Nolfo, che godeva di grande prestigio personale (aveva ottenuto il titolo di Vicario Imperiale e nel 1347 ospitò il re Ludovico di Ungheria) ed era preferito alla esosa politica fiscale degli amministratori pontifici.
Alla stabilità politica di Urbino concorse l’abilità diplomatica del Cardinale Egidio Carrillo de Albornoz, che, venuto in Italia per restaurare i possessi pontifici (Ducato romano, Esarcato e Pentapoli) dopo la crisi avignonese, preferì non contrastare i fieri signori dell’Italia centrale, ma tenerseli buoni conferendo loro il titolo di Vicari Pontifici: fu così che nel 1355 riconobbe a Nolfo ed Enrico da Montefeltro la custodia civitatis di Urbino e di Cagli, in cambio della quale essi riconobbero l’autorità della Santa Sede. Questa investitura fece sì che Urbino fosse sempre ben governata dai suoi signori, che evitarono saggiamente di tenere una cattiva condotta, per timore di vedersi revocare il vantaggioso titolo. D’altra parte la posizione dei domini urbinati era strategicamente importantissima per il mantenimento del delicato equilibrio nell’Italia centrale, e di questo si avvide l’Albornoz, che tenne nei confronti dei signori di Urbino un atteggiamento sempre  moderato e favorevole.
Alla morte di Nolfo, tra i vari membri della famiglia si affermò Paolo, che mantenne la custodia civitatis. La sua sfortuna politica fu dovuta ad una serie di fatti concomitanti: la caduta definitiva dei ghibellini suoi alleati, la morte dell’Albornoz (1367), il passaggio del dominio di Urbino sotto il legato pontificio inviato da Papa Urbano V. Nonostante tutto, Paolo si mantenne fedele verso la Chiesa, ma gli altri membri della famiglia, guidati da Antonio (1348-1404), figlio di Federico II Novello, mantennero la linea dura e si opposero con decisione alle pretese del Papato. Ne seguirono vari conflitti e infine l’occupazione della città da parte delle truppe pontificie guidate da Pandolfo Malatesta (1369). Tuttavia l’abilità e la tenacia di Antonio ebbero la meglio sulla inopportuna condotta della amministrazione ecclesiastica, che imponeva pesanti tassazioni, dovute spesso alla necessità di pagare le milizie mercenarie: circostanza questa che esasperava gli Urbinati e i sudditi del Montefeltro, che traevano sopravvivenza e benessere dal mestiere delle armi. Fu durante una delle  rivolte che scoppiavano nelle città poste sotto il dominio papale, che Antonio, nel 1375, riuscì ad approfittarne per rientrare in possesso di Urbino e di Cagli, e ne venne acclamato unico signore, diversamente da prima, quando era la famiglia feudale nel suo insieme a tenere il primato. Sotto il governo di Antonio, i confini si estesero notevolmente: furono annesse Cagli, Gubbio, Cantiano e Sassoferrato (quest’ultima solo per breve tempo, dal 1391 al 1394). Inoltre la sua abilità politica gli permise di inserire lo stato di Urbino (d’ora in poi così si può definire) nel gioco della grande politica italiana, grazie ad amicizie importanti come Gian Galeazzo Visconti, e di ottenere da Papa Bonifacio IX il riconoscimento di tutti i suoi domini (1390). A ornamento della sua azione, va ricordato che ebbe allora inizio quella tradizione umanistica che nella seconda metà del secolo XV farà di Urbino una capitale rinascimentale.
Successe ad Antonio, morto nel 1404, il figlio Guidantonio (1378-1443), che, dopo qualche dissidio con Papa Alessandro V, dal quale ebbe la scomunica (1410-1412), ottenne varie importanti onorificenze e riconoscimenti da Papa Martino V, di cui sposò in seconde nozze la nipote, Caterina Colonna. Questo legame con la Chiesa gli permise di estendere i suoi domini sulla Massa Trabaria (l’antichissimo territorio appartenente alla Chiesa compreso tra le alte valli del Marecchia e del Metauro, comprendente anche l’Alpe della Luna, allora ricchissimo di abetaie e così denominato per la produzioni di travi, trabes, destinate alle architetture romane) e Castel Durante (Urbania), nonché la conferma del titolo comitale.
Nel 1443 papa Eugenio IV elevò Urbino alla dignità ducale a favore di Oddantonio (1427-1444), figlio di Guidantonio. Tuttavia di una tale eredità non seppe trarre beneficio: la sua incapacità politica e amministrativa e una vita dissoluta lo fecero cadere ben presto vittima di una congiura in cui fu assassinato assieme a due consiglieri (21 luglio 1444).
Fu col Duca Federico (1422-1482), la cui immagine di profilo è notissima per il ritratto eseguito da Piero della Francesca, che la città assumerà quell’aspetto monumentale che tutti conosciamo, diventando una città d’arte di rilevanza assoluta. Sotto la sua signoria, Urbino, da piccolo stato militare, costretto nel medioevo a destreggiarsi abilmente tra papi e imperatori e a difendersi dalle continue incursioni, diverrà una compagine politicamente forte e compatta, culturalmente originale e creativa.
Figlio naturale di Guidantonio, nacque a Gubbio nel 1422 e visse fino al 1433 presso la madre adottiva, Giovanna Alidosi, vedova di Bartolomeo Brancaleoni, signore di Mercatello e Sant’Angelo in Vado, di cui sposò nel 1437 la figlia Gentile. Successivamente trascorse due anni alla corte dei Gonzaga di Mantova, dove fu discepolo dell’umanista Vittorino da Feltre; nel 1438 ebbe l’occasione di dar prova, a soli sedici anni, delle sue virtù di guerriero al seguito del condottiero Nicolò Piccinino. Dopo l’uccisione di Oddantonio (1444), divenne signore di Urbino e anche sul piano politico e diplomatico si rivelò eccezionalmente abile e accorto, riuscendo ad appianare i contrasti interni e a riportare la ricchezza economica.
Un personaggio determinante nella vita di Federico e dello stato urbinate fu Ottaviano II degli Ubaldini. Nato a Gubbio tra il 1423 e il 1424, vi trascorse la prima infanzia insieme al fratellastro Federico. Mentre Federico è sempre ritratto come guerriero, Ottaviano, più incline agli studi, viene sempre raffigurato con i libri; egli coadiuvò efficacemente al governo di Urbino come reggente quando il Duca era lontano per le lunghe campagne di guerra e come fido consigliere. Ottaviano ebbe il governo di Apecchio, Mercatello, Sassocorvaro, dove furono costruiti nobili palazzi dall’architetto e amico Francesco di Giorgio Martini.
La politica del Duca Federico portò ad un notevole ampliamento dei confini dello stato: la prima moglie, Gentile, prima ricordata, portò in dote a Federico il dominio della ricca Massa Trabaria, ma non gli diede l’erede sperato e dovette perciò ritirarsi nel 1457 nel monastero di S. Chiara, in Urbino; il secondo matrimonio (1460) con Battista Sforza, figlia quattordicenne di Alessandro Sforza, signore di Pesaro, gli permise di stabilire un importante legame di parentela; infine, con la definitiva vittoria sul signore di Rimini, Sigismondo Pandolfo Malatesta, nella battaglia del Cesano (1462), grazie alla quale pose fine alla guerra - interminabile e da sempre esistente - tra le due storiche casate, si garantì il possesso del Montefeltro, fino a Sant’Agata Feltria.
D’ora in avanti Urbino si trasformò in corte rinascimentale civilissima ed erudita. Il Duca Federico fu, come i suoi antenati, grande condottiero ed abile politico, un professionista della guerra, ma fu anche grande mecenate e raffinato uomo di cultura. Con i proventi delle sue vittorie fece costruire il suo palazzo. Nel 1465 ne affidò i lavori a Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini e fece della sua corte un punto di riferimento e di attrazione per i migliori ingegni del suo tempo. Tutte le città e i borghi furono fortificati dal Martini secondo le tecniche più aggiornate, e i numerosi castelli, baluardi ed edifici di vario genere disseminati nel territorio fanno ancor oggi fede del progetto unitario di Federico.
Nel 1472 nacque l’erede, Guidubaldo, ma la Duchessa Battista, a soli ventisei anni, morì: fu un avvenimento dolorosissimo per il consorte e per tutta la città; va detto che ella, nonostante la giovane età, fu anche abile in politica e provvide a reggere lo stato durante i periodi in cui il Duca prestava altrove il suo servizio di condottiero. Nel 1474 Papa Sisto IV (Francesco Della Rovere) chiamò Federico a Roma e lo nominò Cavaliere di S. Pietro e Confaloniere di Santa Romana Chiesa; gli concesse quindi l’ambito e atteso titolo di duca. Re Edoardo IV di Inghilterra gli conferì l’Ordine della Giarrettiera e il re di Napoli l’Ordine dell’Ermellino. Molto importante per la futura storia del Ducato fu il matrimonio tra una figlia di Federico, Giovanna, e un nipote del papa, Giovanni della Rovere, signore di Senigallia. Era l’apogeo di Urbino e del suo Ducato.
L’ultimo della dinastia feltresca fu Guidubaldo (1472-1508), che per la giovanissima età (aveva dieci anni quando il padre morì durante una campagna militare), fu guidato nell’esercizio del governo dallo zio, il già ricordato Conte Ottaviano Ubaldini. Anche egli fu uomo avveduto e dotto e godette del favore del papa (conservò le stesse cariche del padre) e della stima dei sudditi; si legò ai Signori di Mantova sposando Elisabetta Gonzaga nel 1489. Nonostante la sua assennatezza e il suo valore militare, Guidubaldo conobbe la sventura di essere spodestato con l’inganno nel 1502 da Cesare Borgia, figlio del Papa Alessandro VI, che mirava a creare uno stato personale nell’Italia centrale, includente le città della Romagna, con Urbino capitale. Il Duca riparò a Mantova e Venezia e solo nell’agosto del 1503, dopo la caduta dei Borgia per l’improvvisa morte del pontefice, poté fare ritorno alla sua corte. Poiché al duca mancò l’erede, fu adottato nel 1504 Francesco Maria, il figlio della sorella Giovanna e di Giovanni Della Rovere. Gli anni seguenti furono aurei per la gloria cittadina e per la sua cultura: la corte ebbe tra i suoi ospiti Baldassar Castiglione, l’autore de Il Cortegiano, e Pietro Bembo; nel 1502 venne fondato il Collegio dei Dottori, da cui avrà origine l’università, istituzione che alimenta ancora oggi la vita e la cultura cittadine; fu istituita (1507) la Cappella Musicale del SS. Sacramento, a servizio del Duomo, tuttora attiva. Fu proprio in questo ambiente così nutrito di raffinata cultura, che si formò l’eccezionale personalità artistica di Raffaello.

LA DINASTIA DEI DELLA ROVERE

LA DINASTIA DEI DELLA ROVERE

Ai Montefeltro successero i Della Rovere (1508) , con Francesco Maria I (1490-1538), il nipote di Guidubaldo, morto senza figli. I nuovi signori mantennero lo stato – salvo il periodo tra il 1516 e il 1519, quando fu attribuito da papa Leone X a Lorenzo II dei Medici – fino alla morte, avvenuta nel 1631, dell’ultimo duca, Francesco Maria II.
All’inizio del dominio roveresco la corte conobbe un periodo di splendore, pur senza eguagliare la grandezza dei Montefeltro: ancora era luogo di incontro di letterati, artisti, musicisti. Nel 1513 fu rappresentata per la prima volta la Calandria del Bibbiena; la cultura locale annovera i nomi Girolamo Genga, architetto ducale, scenografo, pittore, cui si deve il progetto della Villa Imperiale di Pesaro (1530); Federico Barocci, nato tra il 1528 e il 1535, un nuovo astro della pittura, creatore di una maniera originale, imitata dai numerosi scolari. Un’attività che in questa epoca raggiunse livelli di altissima qualità e raffinatezza è l’arte della ceramica, apprezzata in tutta Italia, che si affiancò a quella più antica, ugualmente raffinata, di Castel Durante. Dopo il 1530 Tiziano eseguì diversi celebri capolavori per i Della Rovere (tra cui la Bella, la Venere di Urbino, entrambi a Firenze). A Francesco Maria I si deve l’ampliamento delle mura con bastioni in laterizi.
In un secondo momento, tuttavia, al ritorno da Mantova le duchesse Elisabetta ed Eleonora elessero Pesaro come nuova residenza della corte (1523), determinando il decadimento di Urbino a città di provincia, fatto che segnerà inevitabilmente il suo destino. Il Palazzo Ducale non era più la sede del governo, il baricentro dello stato, ma solo una sede prestigiosa della cultura, con tutto il suo tesoro d’arte e le sue gloriose memorie storiche. Francesco Maria I morì nel 1538; gli successe il figlio Guidubaldo II (1538-1574), che governò il Ducato fino al 1574 in un clima di solida stabilità politica, ma anche di staticità generale. Egli fece di Pesaro la capitale politica; Senigallia, con il suo fiorente porto, fu la capitale economica; Urbino, col suo prestigio secolare, la capitale della cultura. Di fatto la corte fu ancora al centro di eventi importanti, ma sempre più marginalmente: Bernardo Tasso vi fu ospitato con il figlio Torquato e lesse il suo Amadigi (1557) alla presenza della Duchessa e all’Accademia degli Assorditi, ma Tiziano fu accolto a Pesaro (1558). La cultura urbinate è ora dominata dalla figura di Federico Barocci, ma i grandi nomi dell’arte italiana non passano più per Urbino. Infine, un avvenimento funesto per la città fu la rivolta degli abitanti esplosa nel 1572 e repressa con crudeltà, cui seguì la condanna a morte dei portavoce delle esigenze della popolazione, aggravata da tasse eccessive: fu un fatto senza precedenti, che troncò i buoni rapporti tra i sudditi e il duca. Questi, infatti, si era reso inviso al popolo per l’aggravio della pressione fiscale, necessario per il mantenimento dell’alto tenore di vita della corte, e per la preferenza di Pesaro, ormai divenuta definitiva capitale dello stato. 
     Francesco Maria II Della Rovere (1549-1631), ricevette la sua educazione presso la corte di Spagna, e ne assimilò la cultura e le consuetudini, cosa che lo rese un po’ estraneo all’ambiente urbinate. Tornato a Pesaro nel 1568, successe al padre già dal 1572 e tenne il Ducato per circa sessanta anni. Il suo fu un governo assennato, ma la situazione politica italiana era profondamente mutata: i piccoli stati regionali avevano poco peso nel gioco delle grandi potenze europee e in più la Chiesa tendeva a riacquistare tutti gli stati periferici su cui aveva diritto, e quindi anche il Ducato di Urbino. Pertanto il problema che tormentò tutta la vita del duca fu quello di garantire allo stato la continuità dinastica, onde impedire che la Santa Sede rientrasse in possesso di Urbino. Poiché egli non ebbe figli maschi dalla prima moglie, Lucrezia d’Este, più anziana di lui, si decise nel 1599, già più che cinquantenne, a sposare la cugina sedicenne Livia Della Rovere, figlia di Ippolito, Marchese di S. Lorenzo in Campo, che nel 1605 gli diede l’erede: Federico Ubaldo (1605-1623). Grandiosi furono i festeggiamenti in tutto il Ducato per lo scongiurato pericolo. Il matrimonio del giovane con Claudia dei Medici (1621), figlia del granduca Ferdinando I di Toscana, stabilì un importante legame con uno stato forte come Firenze, cosa non gradita al pontefice. Nel 1623 il novello principe si stabilisce in Urbino, mentre il padre, uomo incline più allo studio e alla meditazione filosofica, si era ritirato con la famiglia già dal 1607 nella corte di Castel Durante (Urbania), cittadina più tranquilla, alla quale la presenza di un personaggio così importante conferì notevole prestigio. Tuttavia la morte improvvisa, in circostanze misteriose, dopo una notte di bagordi, di Federico Ubaldo (1623), senza figli maschi, indussero il vecchio duca a negoziare col pontefice la devoluzione dello stato alla Chiesa dopo la sua morte, avvenuta in Castel Durante il 18 aprile del 1631.
Gli ultimi anni del Ducato furono assai tristi per la consapevole fine di una grande storia, di un’epopea gloriosa durata quasi tre secoli, caso straordinario nella tormentata e complessa vita politica degli stati italiani. Ad appesantire l’atmosfera di decadenza furono le spoliazione degli immensi tesori d’arte del Palazzo Ducale, susseguitesi per tutto il Seicento.
Fu così che Francesco Maria II, per salvare quanto più poteva dalle mani degli amministratori pontifici, diede in dote alla nipotina Vittoria, figlia di Federico Ubaldo, andata sposa a Ferdinando II dei Medici, numerose opere d’arte (oggi nei maggiori musei fiorentini), mobili, oggetti preziosi, ma anche tende, sgabelli, stoviglie ordinarie, ago e filo. Seguirono, in parte sotto forma di legittimi trasferimenti, altre spoliazioni, volute dai papi, che arricchirono i palazzi pontifici; anche la preziosa biblioteca creata da Federico da Montefeltro fu trasportata a Roma (1657) per volere di Alessandro VII, privando Urbino di uno dei suoi punti di orgoglio, ma proteggendo i volumi dalla distruzione e, in futuro, dalle depredazioni napoleoniche.

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LA DINASTIA DEI DELLA ROVERE

Ai Montefeltro successero i Della Rovere (1508) , con Francesco Maria I (1490-1538), il nipote di Guidubaldo, morto senza figli. I nuovi signori mantennero lo stato – salvo il periodo tra il 1516 e il 1519, quando fu attribuito da papa Leone X a Lorenzo II dei Medici – fino alla morte, avvenuta nel 1631, dell’ultimo duca, Francesco Maria II.
All’inizio del dominio roveresco la corte conobbe un periodo di splendore, pur senza eguagliare la grandezza dei Montefeltro: ancora era luogo di incontro di letterati, artisti, musicisti. Nel 1513 fu rappresentata per la prima volta la Calandria del Bibbiena; la cultura locale annovera i nomi Girolamo Genga, architetto ducale, scenografo, pittore, cui si deve il progetto della Villa Imperiale di Pesaro (1530); Federico Barocci, nato tra il 1528 e il 1535, un nuovo astro della pittura, creatore di una maniera originale, imitata dai numerosi scolari. Un’attività che in questa epoca raggiunse livelli di altissima qualità e raffinatezza è l’arte della ceramica, apprezzata in tutta Italia, che si affiancò a quella più antica, ugualmente raffinata, di Castel Durante. Dopo il 1530 Tiziano eseguì diversi celebri capolavori per i Della Rovere (tra cui la Bella, la Venere di Urbino, entrambi a Firenze). A Francesco Maria I si deve l’ampliamento delle mura con bastioni in laterizi.
In un secondo momento, tuttavia, al ritorno da Mantova le duchesse Elisabetta ed Eleonora elessero Pesaro come nuova residenza della corte (1523), determinando il decadimento di Urbino a città di provincia, fatto che segnerà inevitabilmente il suo destino. Il Palazzo Ducale non era più la sede del governo, il baricentro dello stato, ma solo una sede prestigiosa della cultura, con tutto il suo tesoro d’arte e le sue gloriose memorie storiche. Francesco Maria I morì nel 1538; gli successe il figlio Guidubaldo II (1538-1574), che governò il Ducato fino al 1574 in un clima di solida stabilità politica, ma anche di staticità generale. Egli fece di Pesaro la capitale politica; Senigallia, con il suo fiorente porto, fu la capitale economica; Urbino, col suo prestigio secolare, la capitale della cultura. Di fatto la corte fu ancora al centro di eventi importanti, ma sempre più marginalmente: Bernardo Tasso vi fu ospitato con il figlio Torquato e lesse il suo Amadigi (1557) alla presenza della Duchessa e all’Accademia degli Assorditi, ma Tiziano fu accolto a Pesaro (1558). La cultura urbinate è ora dominata dalla figura di Federico Barocci, ma i grandi nomi dell’arte italiana non passano più per Urbino. Infine, un avvenimento funesto per la città fu la rivolta degli abitanti esplosa nel 1572 e repressa con crudeltà, cui seguì la condanna a morte dei portavoce delle esigenze della popolazione, aggravata da tasse eccessive: fu un fatto senza precedenti, che troncò i buoni rapporti tra i sudditi e il duca. Questi, infatti, si era reso inviso al popolo per l’aggravio della pressione fiscale, necessario per il mantenimento dell’alto tenore di vita della corte, e per la preferenza di Pesaro, ormai divenuta definitiva capitale dello stato. 
     Francesco Maria II Della Rovere (1549-1631), ricevette la sua educazione presso la corte di Spagna, e ne assimilò la cultura e le consuetudini, cosa che lo rese un po’ estraneo all’ambiente urbinate. Tornato a Pesaro nel 1568, successe al padre già dal 1572 e tenne il Ducato per circa sessanta anni. Il suo fu un governo assennato, ma la situazione politica italiana era profondamente mutata: i piccoli stati regionali avevano poco peso nel gioco delle grandi potenze europee e in più la Chiesa tendeva a riacquistare tutti gli stati periferici su cui aveva diritto, e quindi anche il Ducato di Urbino. Pertanto il problema che tormentò tutta la vita del duca fu quello di garantire allo stato la continuità dinastica, onde impedire che la Santa Sede rientrasse in possesso di Urbino. Poiché egli non ebbe figli maschi dalla prima moglie, Lucrezia d’Este, più anziana di lui, si decise nel 1599, già più che cinquantenne, a sposare la cugina sedicenne Livia Della Rovere, figlia di Ippolito, Marchese di S. Lorenzo in Campo, che nel 1605 gli diede l’erede: Federico Ubaldo (1605-1623). Grandiosi furono i festeggiamenti in tutto il Ducato per lo scongiurato pericolo. Il matrimonio del giovane con Claudia dei Medici (1621), figlia del granduca Ferdinando I di Toscana, stabilì un importante legame con uno stato forte come Firenze, cosa non gradita al pontefice. Nel 1623 il novello principe si stabilisce in Urbino, mentre il padre, uomo incline più allo studio e alla meditazione filosofica, si era ritirato con la famiglia già dal 1607 nella corte di Castel Durante (Urbania), cittadina più tranquilla, alla quale la presenza di un personaggio così importante conferì notevole prestigio. Tuttavia la morte improvvisa, in circostanze misteriose, dopo una notte di bagordi, di Federico Ubaldo (1623), senza figli maschi, indussero il vecchio duca a negoziare col pontefice la devoluzione dello stato alla Chiesa dopo la sua morte, avvenuta in Castel Durante il 18 aprile del 1631.
Gli ultimi anni del Ducato furono assai tristi per la consapevole fine di una grande storia, di un’epopea gloriosa durata quasi tre secoli, caso straordinario nella tormentata e complessa vita politica degli stati italiani. Ad appesantire l’atmosfera di decadenza furono le spoliazione degli immensi tesori d’arte del Palazzo Ducale, susseguitesi per tutto il Seicento.
Fu così che Francesco Maria II, per salvare quanto più poteva dalle mani degli amministratori pontifici, diede in dote alla nipotina Vittoria, figlia di Federico Ubaldo, andata sposa a Ferdinando II dei Medici, numerose opere d’arte (oggi nei maggiori musei fiorentini), mobili, oggetti preziosi, ma anche tende, sgabelli, stoviglie ordinarie, ago e filo. Seguirono, in parte sotto forma di legittimi trasferimenti, altre spoliazioni, volute dai papi, che arricchirono i palazzi pontifici; anche la preziosa biblioteca creata da Federico da Montefeltro fu trasportata a Roma (1657) per volere di Alessandro VII, privando Urbino di uno dei suoi punti di orgoglio, ma proteggendo i volumi dalla distruzione e, in futuro, dalle depredazioni napoleoniche.

DAL 1631 ALL’UNITA’ D’ITALIA

DAL 1631 ALL’UNITA’ D’ITALIA

Dopo la morte dell’ultimo duca, il territorio ducale venne incamerato dalla Santa Sede e trasformato in Legazione Pontificia sotto il diretto governo papale, rimanendo pressoché intatto fino all’annessione al Regno d’Italia (1861).
I primi atti del governo ecclesiastico furono l’istituzione del Tribunale d’Inquisizione (che i duchi avevano sempre rifiutato), la creazione a Urbino, Pesaro e Senigallia di tre ghetti per gli Ebrei, nei confronti dei quali i duchi ebbero per contro una benevola tolleranza, se non un rapporto di stima per le varie attività che essi svolgevano all’interno dello stato. La nuova amministrazione, regolare ma piuttosto immobile, non portò al miglioramento delle condizioni economiche, né fu ravvivata da eventi culturali e storici di risonanza nazionale.
Il secolo XVIII fu un’epoca felice per tutte le Marche, attraversate da una fremente volontà di rinnovamento, una vera febbre del nuovo in ambito architettonico e artistico, dovuta alle migliorate condizioni economiche generali e alla competizione tra i nobili mecenati nell’abbellire le città di opere insigni. Fu una rinascita alla quale contribuì la più aperta mentalità di alcuni pontefici (di cui Clemente XI e Clemente XIV originari rispettivamente di Urbino e di Sant’Angelo in Vado). In questo contesto Urbino fu particolarmente privilegiata da Clemente XI, al secolo Gianfrancesco Albani (discendente di una delle più nobili e antiche famiglie urbinati), che tenne la cattedra di Pietro dal 1700 al 1721 e ridiede alla sua città un ruolo di primo piano conferendole una posizione politica di prestigio e una veste urbanistica da capitale, adornando vie e piazze di palazzi, fontane e monumenti, senza deturparne l’aspetto originario. Oltre ai contatti diretti con Roma, Urbino tornò ad essere sede di importanti eventi diplomatici e culturali: Giacomo III Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra, dal 1716 al 1718 e ancora nel 1722 fu ospitato dal papa e soggiornò nel Palazzo Ducale; fu allestito nelle soprallogge del Palazzo il Museo Lapidario; fu istituito il Collegio, destinato all’educazione della gioventù. A questa opera di rinascita contribuirono in seguito altri membri della famiglia Albani, i Cardinali Annibale e Alessandro, nipoti del papa, i cui numerosi interventi in ogni campo, spesso a spese proprie, furono generosi e meritori. Con l’avvento di Napoleone, anche l’ex Ducato, entrato a far parte della Repubblica Romana (1798), pagò il suo doloroso tributo alla rapacità dei Francesi.  Ristabilito il governo pontificio dopo il 1815, il cardinale Giuseppe Albani trovò la soluzione al problema - risalente ai primi anni dell’insediamento dei legati papali - del primato delle due capitali storiche della Legazione, Pesaro e Urbino, che nel 1832 diverranno capoluogo rispettivamente di due province, marittima e montana, risultanti dalla divisione del territorio ducale. Con l’unità nazionale le due città venivano di nuovo riunite in unica amministrazione provinciale, cui corrispose il toponimo tuttora in vigore di Pesaro e Urbino.

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DAL 1631 ALL’UNITA’ D’ITALIA

Dopo la morte dell’ultimo duca, il territorio ducale venne incamerato dalla Santa Sede e trasformato in Legazione Pontificia sotto il diretto governo papale, rimanendo pressoché intatto fino all’annessione al Regno d’Italia (1861).
I primi atti del governo ecclesiastico furono l’istituzione del Tribunale d’Inquisizione (che i duchi avevano sempre rifiutato), la creazione a Urbino, Pesaro e Senigallia di tre ghetti per gli Ebrei, nei confronti dei quali i duchi ebbero per contro una benevola tolleranza, se non un rapporto di stima per le varie attività che essi svolgevano all’interno dello stato. La nuova amministrazione, regolare ma piuttosto immobile, non portò al miglioramento delle condizioni economiche, né fu ravvivata da eventi culturali e storici di risonanza nazionale.
Il secolo XVIII fu un’epoca felice per tutte le Marche, attraversate da una fremente volontà di rinnovamento, una vera febbre del nuovo in ambito architettonico e artistico, dovuta alle migliorate condizioni economiche generali e alla competizione tra i nobili mecenati nell’abbellire le città di opere insigni. Fu una rinascita alla quale contribuì la più aperta mentalità di alcuni pontefici (di cui Clemente XI e Clemente XIV originari rispettivamente di Urbino e di Sant’Angelo in Vado). In questo contesto Urbino fu particolarmente privilegiata da Clemente XI, al secolo Gianfrancesco Albani (discendente di una delle più nobili e antiche famiglie urbinati), che tenne la cattedra di Pietro dal 1700 al 1721 e ridiede alla sua città un ruolo di primo piano conferendole una posizione politica di prestigio e una veste urbanistica da capitale, adornando vie e piazze di palazzi, fontane e monumenti, senza deturparne l’aspetto originario. Oltre ai contatti diretti con Roma, Urbino tornò ad essere sede di importanti eventi diplomatici e culturali: Giacomo III Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra, dal 1716 al 1718 e ancora nel 1722 fu ospitato dal papa e soggiornò nel Palazzo Ducale; fu allestito nelle soprallogge del Palazzo il Museo Lapidario; fu istituito il Collegio, destinato all’educazione della gioventù. A questa opera di rinascita contribuirono in seguito altri membri della famiglia Albani, i Cardinali Annibale e Alessandro, nipoti del papa, i cui numerosi interventi in ogni campo, spesso a spese proprie, furono generosi e meritori. Con l’avvento di Napoleone, anche l’ex Ducato, entrato a far parte della Repubblica Romana (1798), pagò il suo doloroso tributo alla rapacità dei Francesi.  Ristabilito il governo pontificio dopo il 1815, il cardinale Giuseppe Albani trovò la soluzione al problema - risalente ai primi anni dell’insediamento dei legati papali - del primato delle due capitali storiche della Legazione, Pesaro e Urbino, che nel 1832 diverranno capoluogo rispettivamente di due province, marittima e montana, risultanti dalla divisione del territorio ducale. Con l’unità nazionale le due città venivano di nuovo riunite in unica amministrazione provinciale, cui corrispose il toponimo tuttora in vigore di Pesaro e Urbino.



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